J.L. v Italia
La Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia: non rispetta la dignità di una presunta vittima di stupro.
La Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia il 27/05/2021 per aver violato i diritti di una presunta vittima di violenza sessuale e l’’articolo della Convenzione in questione corrisponde al numero 8: “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”.
Il caso riguarda la sentenza della Corte d’appello del 2015 che capovolse quella precedente di primo grado “perché il fatto non sussiste”.
I giudici della Corte d’appello di Firenze (Angela Annese, Maria Cannizzaro e Federico Boscherini) spiegarono: «il racconto della ragazza configura un atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso, che evidentemente l’aveva condotta a scelte da lei stessa non pacificamente condivise e vissute traumaticamente o contraddittoriamente, come quella di partecipare dopo il fatto al workshop estivo Sex in Transition vicino Belgrado o prima del fatto quella di interpretare un film splatter del regista imputato al processo, intriso di scene e di violenza che aveva mostrato di reggere senza problemi»
Dopo aver esaurito le vie di ricorso interne, la vittima ha fatto ricorso a Strasburgo non riguardo l’assunzione degli imputati bensì riguardo il contenuto della sentenza che non avrebbe rispettato la sua vita privata e intima, protetta dall’art. 8 della convenzione, citando particolari irrilevanti della sua vita privata per giustificare il rapporto sessuale in questione. Tra le motivazioni della sentenza troviamo il fatto che gli imputati avessero potuto intravedere “gli slip rossi” della vittima mentre cavalcava un “toro meccanico” oppure che la vittima avesse avuto in passato una relazione lesbica e si definisse bisessuale.
La Corte di Appello all’interno della sentenza, tramite la riproposta di stereotipi di genere e pregiudizi relativi al ruolo delle donne all’interno della società italiana, ha re-vittimizzato la ricorrente togliendole credibilità a causa della sua vita personale e sessuale.
La Cedu ha considerato «ingiustificate le osservazioni riguardanti la bisessualità, le relazioni sentimentali e il rapporto sessuale occasionale della ricorrente prima dei fatti. Inoltre sostiene che il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corted’Appello veicolino i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare la protezione efficace dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente. La Corte è convinta che le azioni penali e le sanzioni penali svolgano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta contro la disuguaglianza tra genere. È pertanto essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie e di esporre le donne a vittimizzazione secondaria utilizzando discorsi colpevolizzanti e moralizzatori, scoraggiando la fiducia delle vittime nella giustizia»
Per quanto riguarda gli obblighi dello Stato derivanti l’art 8 della Convenzione la Corte ha ribadito che esso “impone agli Stati l’obbligo positivo di adottare disposizioni penali che criminalizzino e puniscano efficacemente qualsiasi atto sessuale non consensuale, anche quando la vittima non ha opposto resistenza fisica, e di mettere in pratica tali disposizioni mediante lo svolgimento di indagini e azioni penali efficaci”. Inoltre, la Corte ha già affermato che i diritti delle vittime di reati che sono parti di un procedimento penale generalmente rientrano nell’articolo 8 della Convenzione.
Come già sappiamo le sentenze della Cedu sono vincolanti per le parti (articolo 46 CEDU), quindi l’Italia avrà l’obbligo sia di cessare la violazione adottando misure generali idonee ad impedire la reiterazione della violazione, sia di risarcire la ricorrente 12.000 euro per danni morali.
Greta Martinez