Le condotte persecutorie del datore di lavoro: mobbing, stalking occupazionale e straining - DONNEXSTRADA
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Le condotte persecutorie del datore di lavoro: mobbing, stalking occupazionale e straining

Le condotte persecutorie del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori assumono svariate forme, molte delle quali integrano persino reato. Occorre, pertanto, un’attenta valutazione del comportamento realizzato, al fine innanzitutto di inquadrarlo nella fattispecie corretta e, poi, analizzare se le stesse costituiscano o meno reato, per ottenere una valida tutela nelle corrette sedi.

 

IL MOBBING.

Il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob”, che significa assalire.

Il mobbing può essere definito come una continua e sistematica condotta vessatoria del datore di lavoro (mobbing verticale o bossing) o dei suoi dipendenti (mobbing orizzontale) finalizzata a perseguitare un lavoratore allo scopo di isolarlo, maltrattarlo, umiliarlo e, generalmente, portarlo alle dimissioni. Ed infatti il dipendente riporta un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità e, quindi, non riesce ad andare avanti nell’attività lavorativa.

Chiaramente deve sussistere il nesso eziologico tra le condotte del superiore o collega e il pregiudizio subito dal lavoratore nella propria integrità psicofisica e/o nella propria onorabilità.

Secondo un orientamento giurisprudenziale costante grava sul lavoratore l’onere di provare la sistematicità della condotta e la sussistenza di un intento persecutorio del datore di lavoro.

Il mobbing in Italia si presenta in vari contesti con caratteristiche diverse e può colpire chiunque, indipendentemente da età, sesso e posizione gerarchica. In Italia sono circa un milione e mezzo i lavoratori vittime di mobbing, su un totale di circa 21 milioni di occupati, secondo i dati forniti dall’Ispesl, Istituto per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro.

 

IL MOBBING COSTITUISCE REATO?

Il mobbing nel nostro ordinamento non è previsto come reato da una norma specifica; tuttavia, le condotte del datore di lavoro possono assumere rilevanza da un punto di vista penale se, in concreto, viene realizzata una fattispecie di reato.

In primo luogo occorre sottolineare come in caso di lesione all’integrità psicofisica di un lavoratore con una condotta di tipo colposo, possa essere ritenuto sussistente il reato di lesione ex art. 590 c.p.; se, invece, le condotte sono state dolose, il reato integrato sarà quello previsto dall’art. 582 c.p., ossia per l’appunto, lesione dolosa.

Qualora il datore di lavoro minacci il lavoratore, egli sarà responsabile del reato previsto dall’art. 612 c.p. (minaccia), mentre in caso di offese pronunciate in presenza di più persone ed in assenza della vittima, il reato sarà quello di diffamazione.

Se con la condotta vessatoria, discriminatoria e di emarginazione del datore di lavoro, si determina o rafforza – per colpa – nel lavoratore una tendenza suicidiaria, potrebbe essere contestato il reato di omicidio colposo. Astrattamente configurabile in caso di mobbing è l’istigazione al suicidio prevista dall’art. 580 c.p., norma raramente applicata per la difficoltà di provare in concreto l’elemento psicologico del reato in capo all’agente.

In caso di mobbing la Cassazione ha ritenuto sussistente il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., nonostante sia solitamente collegato al contesto familiare, ai rapporti di educazione, istruzione e cura. E’ stata, dunque, estesa l’applicazione della norma relativa ai maltrattamenti in famiglia ai rapporti professionali e di prestazione di opera, se ricorrono determinate condizioni. Ed invero il lavoratore deve avere una posizione di supremazia rispetto al lavoratore che, al contrario, deve trovarsi in una condizione di soggezione, quantomeno psicologica; inoltre, la condotta deve essere costante e sistematica, poiché il reato di maltrattamenti è abituale (il reato abituale si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale proprio per la loro reiterazione nel tempo).

In passato la Cassazione collegava i maltrattamenti ad un ambiente lavorativo ristretto, riconducibile a una “famiglia” (ad esempio una farmacia). Peraltro, recentemente ha riconosciuto la sussistenza dei maltrattamenti anche rispetto a grandi contesti aziendali, purché il rapporto tra datore di lavoro e il dipendente abbia una natura “para-familiare”.

 

LO STALKING OCCUPAZIONALE.

Per stalking occupazionale o lavorativo si intende la persecuzione del lavoratore da parte del datore di lavoro, di un superiore gerarchico o di un collega, che crea ansia, paura o l’alterazione delle abitudini di vita quotidiane della vittima, per motivazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

E’, quindi, uno stalking che trova origini in ambito lavorativo, ma ne supera i confini, arrivando ad incidere sulla vita privata della vittima.

Occorre precisare come circa il 15% degli atti persecutori abbia luogo negli ambienti di lavoro, sia nelle grandi aziende, che nelle piccole/medie imprese.

Lo stalking lavorativo è diverso dal mobbing: mentre quest’ultimo si realizza sul posto di lavoro, lo stalking ha conseguenze sulla vita privata del lavoratore.

Secondo la Suprema Corte gli atti vessatori del datore di lavoro possono integrare gli estremi del delitto di stalking, purché ne ricorrano gli elementi costituivi, ossia la reiterazione nel tempo degli atteggiamenti ostili, la paura o ansia della vittima o la necessità di cambiare abitudini di vita. E’, altresì, necessario che la condotta dello stalker sia preordinata ad umiliare e ad isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro: in particolare, gli atteggiamenti vessatori devono determinare una variazione della libertà di autodeterminazione della persona offesa, cagionando uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis c.p..

Più recentemente la Cassazione ha precisato che scatta il reato di stalking quando chi riveste un ruolo di sovraordinazione agisce contro i lavoratori con reiterate molestie, minacce e pretestuose incolpazioni disciplinari: “la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612 bis c.p.” (Cass. n. 12827/22).

 

LO STRAINING.

Il termine straining deriva da “to strain” e significa stringere, mettere sotto pressione, distorcere ed è una forma attenuata di mobbing. Il Tribunale di Bergamo nel 2005 lo definì come “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante.”

Secondo la Suprema Corte lo straining sussiste quando vi sono comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche qualora manchi la pluralità delle azioni vessatorie. In buona sostanza, lo straining non è mero stress occupazionale (perché la vittima soffre di ansia o depressione), ma non è nemmeno mobbing, dal quale si differenzia perché non richiede la ripetitività della condotta: mentre per lo straining è sufficiente una sola azione, per il mobbing occorre una sistematicità delle vessazioni.

Le condotte di straining possono integrare diversi reati come lesioni personali, violenza sessuale, violenza privata, minacce, molestia o disturbo alle persone o l’abuso d’ufficio (non, invece, i maltrattamenti – come il mobbing – in quanto essendo un reato abituale necessita la ripetitività della condotta).

Avv. Stefania Crespi

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