L’identità di genere femminile tra conflitto e autoaffermazione
Arianna si guarda allo specchio, vede la rabbia dipinta sul suo volto ma sa che dentro di lei convivono anche altri sentimenti, in lotta tra loro: senso di colpa e amore per se stessa. Da quando i suoi figli hanno lasciato casa per andare in contro ad una vita più autonoma, tutto ha iniziato un lento processo di metamorfosi. Si sentiva come se fosse ingrassata da un momento all’altro, ogni cosa cominciava a starle stretta, lentamente ciò che era sempre stata non era più la vera lei. Un crescente desiderio di riconquista la portò a rivalutare molti aspetti della sua vita e a ponderare l’idea di abbandonarne alcuni: Il ruolo di madre, casalinga perché costretta a lasciare gli studi universitari per la nascita del primogenito; il ruolo di moglie materna, sempre presente e attenta ai bisogni di Luca; perfino alcuni tratti della sua personalità le apparivano ora estranei, il suo essere accondiscendente e timida, ad esempio. La sua antica passione per l’uncinetto le faceva quasi ribrezzo. Arianna, in certi momenti avrebbe pure voluto cambiare nome. C’era comunque qualcosa che della sua vecchia lei continuava a riconoscere come proprio. Alla fine scelse di fare spazio, come quando, al cambio di stagione, l’armadio viene svuotato e si decide di regalare alcuni vecchi capi e di conservarne altri.
Questa è la storia di Arianna, una storia comune, di sentimenti e pensieri simili a quelli di molte donne che, nell’arco del proprio ciclo di vita, si ritrovano più volte costrette ad affrontare un bilanciamento tra ciò che gli altri si aspettano da loro e la propria volontà, i propri bisogni. Questa dinamica è spesso all’origine di un conflitto, più o meno sofferto, tra l’espressione del sé reale e le aspettative intrinseche alla società, le quali contribuiscono a costruire quello che in psicologia sociale viene chiamato “sé normativo”.
Quello di Arianna è un conflitto ontologico, cioè che riguarda la sua identità di genere, o meglio, ciò che socialmente e culturalmente determina la percezione di cosa è femminile e cosa non lo è. Ma perché questa donna si sente avvolta da questo vortice di sentimenti e idee in contrapposizione tra loro?
Per cercare di capire meglio quali siano le radici di questo conflitto, vi propongo di partire da alcune riflessioni circa lo sviluppo della nostra identità di genere femminile, ma anche sui ruoli e gli stereotipi che la caratterizzano.
Identità di genere femminile
L’identità di genere si sviluppa a partire dalla primissima infanzia e solitamente assume maggiore stabilità solo dopo l’adolescenza. Il processo di sviluppo della nostra identificazione di genere è guidato da molteplici influenze di tipo sociale, culturale e storico; infatti, è importante ricordare che esso non è un costrutto biologico e di conseguenza non coincide con il sesso di appartenenza. L’identità di genere ha a che fare con il riconoscere se stessi in quanto «caratterizzati da una costellazione di aspetti psicologici, interessi, valori e attitudini associati ai sessi in base ad aspettative, valori e norme culturali di riferimento».
È quindi chiaro come vi siano molte determinanti psicosociali che plasmano il nostro modo di “sentirci donne”, che normano il modo in cui percepiamo di dover essere e poter vivere. Chi si identifica nel genere femminile fa esperienza del peso di numerose regole comportamentali inerenti al proprio ruolo di genere all’interno delle relazioni familiari, amicali o di lavoro.
Uno dei problemi più rilevanti è che i ruoli interiorizzati sin dai primi anni di vita, spesso irrigiditi e cristallizzati in veri e propri stereotipi, hanno la capacità di guidare le nostre scelte in maniera coercitiva quindi limitando la nostra libertà. Rappresentano di fatto delle gabbie, dei recinti dentro i quali ci si può muovere in sicurezza ma al prezzo di ridurre le proprie possibilità e l’espressione della propria unicità.
Le conseguenze del conflitto
La storia di Arianna è la storia di un conflitto di identità. Una parte della sua identità preme per riconquistare il suo spazio, riemergere dall’ombra alla quale è stata costretta dalle immagini socialmente accettate di ciò che una “vera donna” dovrebbe essere.
Pensiamoci: questa costante ricerca di equilibrio a cui noi donne siamo vincolate, oltre a costituirsi come un grande dispendio di energie, può generare diversi tipi e gradi di sofferenza psicologica.
L’impatto di queste pressioni a volte può essere molto sottile e celarsi dietro dinamiche che non vengono immediatamente collegate in maniera causale alla sofferenza percepita. Si pensi, ad esempio, alle scelte di vita: una donna che si sente obbligata in quanto tale a sposarsi e a “mettere su famiglia”, ma che poi, una volta madre e moglie, soffre un’insoddisfazione a cui non riesce a dare significato e per cui prova profondi sensi di colpa. O ancora, una donna che decide di non voler diventare madre e di investire maggiormente su se stessa e la propria carriera e per questa scelta subisce critiche e recriminazioni che le fanno pensare di aver fallito nel suo ruolo di genere.
In risposta a questa conflittualità possono emergere sintomi riferibili a veri e propri disturbi psicopatologici come la depressione e i disturbi alimentari (anoressia, bulimia ecc.). Secondo la letteratura, una delle problematiche legate all’identità femminile nei disturbi alimentari è proprio la pressante richiesta di un equilibrio tra gli ideali di successo, perfezione e indipendenza da un lato e le aspettative di femminilità tradizionale, tra le quali ve ne sono alcune che entrano in contraddizione con le prime, come la passività, la dipendenza e la compiacenza.
L’Autoaffermazione come cura di sé
L’esperienza di Arianna ci dice che, in un determinato momento della nostra vita, è possibile sentire il bisogno di inaugurare un cambiamento, provare ad affrontare in maniera propositiva questo conflitto, per mitigarne o eliminarne gli effetti negativi. Processo tutt’altro che semplice, bisogna infatti trovare il coraggio e la forza di contestare e de-costruire le prescrizioni sociali e culturali che fanno parte della nostra rappresentazione identitaria, mettendola in crisi; scomporre e ricomporre, in un percorso di autoaffermazione che crei nuove e diverse sintesi di noi stesse.
L’autoaffermazione è direttamente legata alla nostra identità e alla capacità di esprimere in maniera assertiva e coerente ciò che siamo (pensieri, sentimenti, idee ed emozioni). A sua volta, la possibilità di affermare ciò che siamo è intrinsecamente collegata al nostro benessere psicologico, in quanto ha a che fare con il grado della nostra autostima, di fiducia in noi stesse e il senso della nostra autoefficacia.
Cosa possiamo fare per incentivare la nostra autoaffermazione e autodeterminazione?
- Un primo e fondamentale ingrediente è l’introspezione, ovvero un lavoro ad un livello più intimo e personale. Approfondire la conoscenza di noi stesse, navigare liberamente dentro di noi evitando il giudizio, per ampliare la consapevolezza di ciò che sono i nostri bisogni e sentimenti, accentandoli e approvandoli ed evitando di cercare questa approvazione all’esterno, negli altri.
- Seconda cosa, evitare l’isolamento e dare spazio alla solidarietà. Un modo per rendere questo processo meno doloroso e più facile è quello di unirsi ad altre compagne e scoprire di non essere sole. La psicologia sociale ha dimostrato quanto sia importante il senso di appartenenza a un gruppo per mitigare i fattori di stress, aumentare l’autostima e il senso di autoefficacia. Organizzare o entrare a far parte di gruppi di auto-aiuto, di discussione e riflessione, attivismo politico ecc., può darci una marcia in più nel nostro percorso di miglioramento.
- Ultimo suggerimento, ma non per questo meno importante, riguarda la richiesta di aiuto. Non sempre riusciamo ad affrontare tutto da sole, a volte possiamo sentire il bisogno di dover chiedere un aiuto professionale e specifico, sia per sviscerare alcuni aspetti più ostici e raggiungere una consapevolezza maggiore, sia perché la sofferenza si è fatta troppo ingombrante e non riusciamo a portarne il peso da sole. In ogni caso, è lecito ed è un bene prendersi cura di se stesse a 360 gradi.
Non è mai troppo tardi per essere liberx.
Dott.ssa Irene Ciaccio
Psicologa clinica, esperta in Psicologia Giuridica
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Riferimenti bibliografici
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“Coping with structural disadvantage: Overcoming negative effects of perceived barriers through bonding identities”, Bakouri, M., Staerkl C., British Journal of Social Psychology, 2015