Se non c’è consenso esplicito o implicito sussiste sempre violenza sessuale.
È davvero assurdo, ma nel 2022 è ancora necessario precisare che, se non c’è consenso ad un rapporto sessuale, sussiste il reato di violenza sessuale.
E ciò perché ancora oggi non è ben chiaro il concetto di consenso? O perché la parola “consenso” non appare nell’art. 609 bis c.p., che prevede il reato di violenza sessuale?
Tale norma, infatti, punisce “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”: il presupposto del reato è la costrizione, che presume il contrasto tra la volontà di chi commette e quella di chi lo subisce.
Da tempo Amnesty International chiede alla Ministra della Giustizia la revisione dell’articolo 609 bis c.p., affinché qualsiasi atto sessuale non consensuale sia punibile.
Solo 12 legislazioni in Europa prevedono espressamente il consenso, nonostante l’impegno preso dagli Stati con la Convenzione di Istanbul, che all’articolo 36 prescrive di reprimere in maniera adeguata rapporti o atti sessuali compiuti su persona non consenziente, specificando che il consenso deve essere liberamente espresso e valutato nel contesto circostanziale.
E’ stato, peraltro, osservato che tale Convenzione fissa un obiettivo, lasciando gli Stati liberi di scegliere come assicurarlo; inoltre, secondo la Corte Europea dei Diritti Umani in alcuni Paesi l’incriminazione di atti sessuali non consensuali si ottiene mediante l’interpretazione dei termini usati nelle norme (“coercizione”, “violenza”, “costrizione”, “minaccia”, “inganno”) o, comunque, attraverso la valutazione di tutte le circostanze del caso concreto.
Va anche ricordato come nel codice fascista la violenza sessuale fosse reato contro la moralità pubblica e il buon costume e non, come ora, contro la persona e la sua libertà di autodeterminazione sul piano sessuale.
Inoltre, la giurisprudenza ha espresso principi chiari, ormai divenuti consolidati, che insistono sulla necessità del consenso al rapporto sessuale, al fine di escludere la sussistenza del reato.
In primo luogo, secondo la Cassazione gli “atti sessuali” non sono solo “gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente”.
Inoltre, la nozione di violenza non è limitata all’esplicazione di energia fisica, ma comprende qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, costretto a subire atti sessuali contro la propria volontà. Possono quindi rientrare in tale nozione le modalità repentine ed insidiose della condotta, posta in essere senza accertarsi del consenso, o, comunque, prevenendone la manifestazione di dissenso.
Pertanto, la condotta può consistere in un’intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire o compiere atti sessuali: al fine di valutare l’idoneità della violenza o della minaccia occorre considerare ogni circostanza oggettiva e soggettiva che possa influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima.
Va poi sottolineato come la violenza non debba essere solo quella che annulla la volontà del soggetto passivo, ma anche quella che la limita e come non sia necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall’inizio fino al congiungimento: è sufficiente che il rapporto non voluto dalla parte offesa sia consumato, anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza della stessa.
Il dissenso può essere desunto da una molteplicità di fattori, anche a prescindere dalla esistenza di riscontri fisici sul corpo della vittima, essendo solo rilevante la costrizione ad un consenso viziato.
Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale basta che l’agente abbia la consapevolezza che non sia stato manifestato il consenso: integra il reato non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà e integrità sessuale altrui, realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita.
Il matrimonio o la convivenza non devono far presumere l’esistenza del consenso: il rapporto di coniugio o di convivenza indubbiamente crea un’intimità, ma ciò non incide sulla libertà di autodeterminazione sessuale della vittima. In particolare, il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, non ha valore scriminante, quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le minacce, con conseguente compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancora più pregiudizievoli. Infatti spesso le vittime, pur avendo manifestato invano il loro dissenso, subiscono atti sessuali, perché temono ulteriori reazioni violente.
Giova ricordare su questo tema, che la Suprema Corte ha ritenuto colpevole un uomo che palpeggiò il seno della sua ex compagna, impegnata in una conversazione telefonica e che manifestò il proprio dissenso (per fatti concludenti), cercando di allontanarlo con il gomito: rivelava un chiaro dissenso, venendo poi picchiata per il suo rifiuto. L’imputato non poteva, quindi, confidare in un consenso tacito.
Ma vi è di più: nei rapporti sessuali tra persone maggiorenni, il compimento di atti sessuali deve essere sorretto da un consenso che deve sussistere dal momento iniziale fino alla fine, ossia deve perdurare nel corso dell’intero rapporto, senza soluzione di continuità. In buona sostanza, la manifestazione del dissenso – che può essere anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà – può intervenire in itinere e, quindi, in qualsiasi momento.
Inequivocabili indici di dissenso della vittima, manifestati durante il rapporto, sono il pianto, oppure chiedere di uscire o tentare, invano, di andare fuori dalla stanza nella quale si era volontariamente entratx.
Un’altra delicata questione riguarda la violenza sessuale su persona che si trova in stato di inferiorità fisica o psichica, perché ha assunto alcool o droghe: va ritenuto responsabile colui che, approfittando della condizione della vittima, la induce a compiere o subire atti sessuali ai quali la stessa non avrebbe prestato il consenso.
L’eventuale richiesta, proveniente dalla persona offesa, di far uso del profilattico non vale di per sé quale consenso al rapporto carnale, perché potrebbe essere rivolta ad elidere o ridurre le conseguenze negative dell’atto non voluto, come una gravidanza o malattie.
A tal proposito occorre prendere in considerazione una particolare attività sessuale, che consiste nel togliersi il profilattico durante il rapporto, cambiando le “condizioni” iniziali dello stesso, senza aver ricevuto il consenso, neanche implicito: stealthing, termine che deriva dall’aggettivo inglese stealth, che significa nascosto o invisibile.
In Italia (e negli Stati Uniti) nessuna norma vieta espressamente lo stealthing, ma, per giurisprudenza consolidata, una persona deve rimanere consenziente per tutta la durata del rapporto anche sulle sue “condizioni” o “modalità” e, quindi, se queste ultime mutano e non viene prestato nuovamente, potrebbe ritenersi integrata la violenza sessuale.
La Cassazione ha rilevato come il consenso iniziale non sia sufficiente, quando il rapporto si “trasforma in un atto violento”, non voluto dalla vittima, oppure quando l’uomo decida di eiaculare internamente, senza il consenso – esplicito o implicito – a questo atto finale.
Ed è certamente un “atto violento” il subire il cambiamento di un rapporto da protetto a non protetto, in base ad scelta unilaterale, non condivisa e non voluta, correndo oltretutto il rischio di rimanere incinta o di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Infatti, come precisato dalla Suprema Corte, “L’eiaculazione interna rappresenta … una delle tante modalità di conclusione di un rapporto sessuale che può incidere sulla sua spontaneità e libertà reciproca fino a trasformarlo in atto sessuale contrario alla volontà di uno dei due protagonisti. Né può ridursi il momento dell’eiaculazione ad un segmento “neutro” dell’atto sessuale”.
Va condannato anche chi impone pratiche sessuali estreme a una persona che, consenziente all’inizio del rapporto, manifesti successivamente di non voler proseguire: anche un rapporto, inizialmente voluto, ma proseguito con “modalità sgradite o comunque non accettate dal partner, integra violenza sessuale.
Dunque, occorre il consenso durante l’intero arco del rapporto sessuale da parte della vittima senza “interruzioni ed esitazioni o resistenze di sorta”.
Va ricordato che sussiste violenza sessuale anche quando, senza consenso, si tocchino i glutei, i fianchi, oppure quando si imponga un bacio, anche sulla guancia se “in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga
conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima”.
E tutto ciò a prescindere dai reali propositi dell’agente: l’ha fatto con intento ingiurioso o derisorio? Ebbene, ciò non assume nessuna rilevanza per la configurabilità del reato, perché costituisce atto sessuale qualsiasi atto idoneo – secondo canoni scientifici e culturali – a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dall’intenzione dell’agente, purché questi sia consapevole della natura oggettivamente sessuale dell’atto posto in essere con la propria condotta cosciente e volontaria.
Un’altra questione riguarda l’attendibilità della vittima, relativamente al consenso. La Cassazione ha affermato che il consenso della persona offesa non può essere desunto dal fatto che la stessa si sia fatta riaccompagnare a casa in automobile dal violentatore in seguito all’atto sessuale; né tale circostanza, al pari dell’assenza di evidenti lesioni corporali, può rilevare ai fini della valutazione sull’attendibilità della sua testimonianza.
Inoltre, le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale, previa verifica della credibilità del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (sentenza della Cassazione depositata a gennaio 2022).
Destano, quindi, perplessità sentenze come quella del Tribunale di Busto Arsizio che pare abbia escluso la sussistenza della violenza sessuale, dal momento che la vittima ha reagito dopo 20 secondi; o quella del Tribunale di Torino del 2017, che basò la motivazione sulla mancata reazione della vittima, ossia non aveva urlato, né pianto, non aveva tradito “quella emotività che pur avrebbe dovuto suscitare in lei la violazione della sua persona”; non aveva riferito sensazioni o condotte spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, parlando “solo di malessere” senza saper spiegare in cosa consistesse e limitandosi a dire “basta”.
Oppure la richiesta di archiviazione formulata da un Pubblico Ministero per il quale “è comune negli uomini dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito – particolarmente amante della materia – tenta un approccio sessuale”.
E ciò appare ancor più grave, tenendo presente che ogni anno in Italia vengono denunciati più di 4mila episodi di abusi e in 8 casi su 10 i presunti responsabili sono persone che le vittime conoscono. Occorre, altresì, prendere in considerazione gli allarmanti dati messi a disposizione dall’Istat, relativi al periodo temporale 2018-2020: il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (6 milioni 788mila) ha subìto nel corso della propria vita forme di violenza fisica o sessuale; più precisamente il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652
mila) e il tentato stupro (746 mila). Ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne (2 milioni 800 mila), in particolare il 5,2% (855mila) da partner attuale e il 18,9% (2 milioni 44 mila) dall’ex partner.
I magistrati devono ricevere un’adeguata formazione su tale reato, per poter svolgere determinate domande alla vittima o per ammettere o rigettare quelle formulate dalle difese. Ma è anche necessario procedere ad una formazione dei ragazzi e delle ragazze a scuola, per far comprendere loro esattamente cosa sia consentito e cosa, invece, è vietato e, in particolare, spiegare loro sin da piccoli la regola fondamentale: un no è un no, senza se e senza ma, sempre!
Avv. Stefania Crespi