VIOLENZA DIGITALE
La tecnologia, il virtuale e la rete hanno sicuramente apportato una indefinita quantità di aspetti positivi all’umanità, ma anche un altrettanto indefinito elenco di problemi e criticità, come ad esempio la velocità di diffusione delle immagini. E quando le immagini sono di carattere intimo, sessuale, e contenenti “nudo”, viaggiano velocissime di dispositivo in dispositivo tra le mani impazienti di chi vuole divorare senza consenso una pezzetto di vita su cui non aveva diritto. Ma andiamo per gradi.
I dati parlano chiaro. Da una ricerca del 2019 pubblicata da Cyber Civil Rights è emerso che su 1606 donne adulte intervistate, 321 hanno vissuto episodi di diffusione illecita da parte di terzi, del proprio materiale intimo. Inoltre il 31,9% ha dichiarato che la diffusione è partita dal proprio partner, mentre il 39,5% ha indicato il precedente partner come soggetto che ha diffuso il materiale.
Nel 2019 il giornale Wired ha pubblicato un’inchiesta inerente un gruppo Telgram composto da oltre 43mila iscritti, di cui sappiamo che era composto per la stragrande maggioranza da uomini. Il gruppo aveva la funzione di agevolare lo scambio di materiale intimo e pedopornografico (molte delle immagini erano riconducibili a delle minorenni), una vera e propria cloaca in cui uomini di tutte le età galleggiavano a proprio agio, richiedendo materiale sempre aggiornato di ragazze totalmente ignare della condivisione spasmodica dei loro corpi. Il gruppo è stato chiuso dalla Polizia Postale, ma il dubbio che sia stato ricreato sotto nuove sembianze in qualche angolo della rete ce lo teniamo ben stretto.
I dati ci dicono che il 51% delle persone che hanno vissuto la condivisione di materiale intimo che le riguardava ha pensato al suicidio mentre il 93% di queste ha vissuto un periodo di forte stress. Ma c’è un dato che spicca fra tutti per la sua gravità: il 49% delle intervistate nello studio precedentemente citato ha dichiarato di aver subito molestie online da utentx che avevano avuto accesso al loro materiale privato. Questo numero ci dice freddamente ed implacabilmente che il revenge porn è un’etichetta a metà, una scarpa di almeno tre taglie in meno rispetto alla realtà. L’importanza del linguaggio, delle parole con cui si pensa il mondo, è enorme. «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo», scriveva Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus Logico Philosophicus, ed il termine “revenge”, “vendetta” è una definizione che non permette una riflessione a trecentosessantagradi sul fenomeno, il quale non coinvolge solo chi “si vendica” e chi “subisce la vendetta”. Infatti, la diffusione di materiale intimo non consensuale trascina con sé una violenza che si ripete nel tempo e nello spazio, agita anche da chi non ha intenzione di perpetuarla. Ad esempio, il notificare alla parte lesa che “per caso” è stato visto il video reso pubblico, può essere un trigger in grado di riattivare nella persona la cacofonia di vissuti negativi connessi ad esso. Parliamo di vergogna, malessere generale, sentimenti di vuoto, rabbia intensa: preoccupazione che un giorno il proprio figlio possa entrare in contatto con il materiale, preoccupazione per la possibile compromissione della propria vita professionale, preoccupazione che l’attuale o il futuro partner possa allontanarsi dopo essere venuto a conoscenza dei fatti. E mentre si affronta il caos interiore, si è obbligati anche a dover cambiare la propria vita sociale; lo studio di Cyber Civil Rights ha evidenziato come il 42% delle vittime si trova a dover spiegare la situazione ai propri datori di lavoro, ai colleghi, a tutor accademici e così via; il 56% sviluppa difficoltà di concentrazione in contesti lavorativi o scolastici; il 39% dichiara che la diffusione del materiale ha avuto un impatto negativo sulla propria carriera lavorativa. Oltre a nome e cognome spesso vengono resi pubblici anche indirizzi e-mail, profili social, e, meno spesso, il telefono cellulare, l’indirizzo del posto di lavoro e l’indirizzo della propria abitazione. Tutto ciò genera conseguenze pesantissime nella vita quotidiana di chi vive in prima persona questa violazione dei propri dati sensibili.
Ma perché si arriva a mettere in rete immagini che, prevedibilmente, cambieranno per sempre la vita di una persona? Un’alta percentuale degli autori che commettono questo reato sono uomini e nel 90% dei casi le protagoniste del materiale condiviso sono donne, partner o ex partner. Quale motivazione può giustificare una pratica talmente invasiva da portare a pensare al suicidio chi la subisce?
Nel prossimo articolo analizziamo insieme come il revenge porn sia una delle molteplici facce deformi della cultura sessista, la quale ha radici centenarie e dure a morire.
Ilaria Saliva
Fotografie di © Bianca Hirata