Maltrattamenti in famiglia: un reato contro la famiglia? - DONNEXSTRADA
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Maltrattamenti in famiglia: un reato contro la famiglia?

Uno dei reati maggiormente commessi in ambito familiare è quello di maltrattamenti in famiglia (la c.d. violenza domestica), collocato tra i delitti contro la famiglia e, in particolare, contro l’assistenza familiare e non, quindi, come nel codice penale del 1889 (Codice Zanardelli) fra i quelli contro la persona.

Tale reato è previsto dall’articolo 572 c.p. che punisce con la reclusione da tre a sette anni un soggetto quando maltratta una persona della famiglia o comunque convivente o una persona sottoposta alla sua autorità o che gli è stata affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte: sono, dunque, possibili parti offese il coniuge, i consanguinei, gli affini, gli adottati, gli adottanti, il convivente more uxorio, altri parenti e anche i domestici, purché conviventi.

L’art. 572 c.p. è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale.

Il reato è configurabile anche in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e di reciproca solidarietà.

Sempre sotto il profilo del soggetto del reato, va ricordato il fenomeno del “Parental abuse” o violenza filio-parentale, commessa dagli adolescenti che abusano fisicamente, emotivamente e verbalmente dei propri genitori. Spesso non si viene a conoscenza di tali reati, perché i genitori non hanno il coraggio di denunciare i propri figli, che devono aver compiuto i 14 anni per poter essere imputabili e subire un processo.

La ripetitività delle condotte di maltrattamento – che isolatamente considerate potrebbero non costituire reato – determina la continuità ed abitualità che è necessaria per l’integrazione del delitto.

Infatti si tratta di un “reato abituale”, che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.

La condotta può assumere diverse connotazioni: non sono la violenza fisica (percosse, lesioni) ma anche violenza psicologica o morale (ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni, atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze), nonché violenza economica. Quest’ultima sussiste qualora chi si trovi in una posizione di “superiorità economica” nega costantemente ai membri della famiglia le risorse oppure impedisce ciò che potrebbe portare ad un’autonomia.

Le vittime di questo tipo di maltrattamento non hanno fonti di guadagno, un conto corrente o carte di credito. Devono utilizzare i beni del capo famiglia, chiedendo un’apposita autorizzazione, che viene solitamente negata. Il permesso deve essere chiesto anche per sostenere le spese quotidiane e se viene concesso, vi è un controllo maniacale con riguardo alle spese effettuate.

Tale fenomeno – che rappresenta uno strumento di controllo e manipolazione – è molto subdolo. Se ne parla poco, ma è piuttosto rilevante, visto che in base a recenti dati colpisce il 26,4% delle donne in Italia.

Sotto il profilo soggettivo, per l’integrazione del reato è sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di porre in essere gli atti vessatori.

La Cassazione ritiene sussistente il reato in esame anche quando la vittima reagisce, purché i litigi siano stati generati da una “volontà di vessazione, umiliazione e sopraffazione” e non, ad esempio, da ragioni squisitamente economiche, oppure legate alla separazione.

L’art. 572 c.p. prevede anche delle circostanze aggravanti quando il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità ovvero se il fatto è commesso con armi; se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Un’ipotesi particolare si verifica quando i minori sono “spettatori” delle violenze commesse in famiglia, ossia la c.d. la violenza assistita. Secondo la Cassazione occorre operare una distinzione: sussiste maltrattamento aggravato (applicando l’art. 61 n. 11 c.p. all’art. 572 c.p.), quando il fatto è avvenuto “alla presenza” dei minori, senza che ne sia derivata sofferenza psico-fisica.

Qualora, invece, i comportamenti violenti accadano abitualmente avanti ai figli, che conseguentemente subiscono un effetto negativo sulla crescita morale e sociale, allora essi diventano vere e proprie parti offese del reato di maltrattamenti.

La Suprema Corte ha anche ritenuto integrato il reato di maltrattamenti, estendendo applicazione della norma dalla famiglia al mondo del lavoro (in particolare al mobbing), purché sussistano alcune condizioni.

In primo luogo, il datore di lavoro deve trovarsi in una posizione di supremazia ed il lavoratore in una condizione di soggezione, per lo meno psicologica; inoltre, la condotta deve essere abituale e sistematica.

La Cassazione ha sottolineato come il rapporto tra datore di lavoro e il dipendente debba assumere una natura “para-familiare”, debba essere quindi caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal più debole del rapporto in quello che ricopre una posizione di supremazia e ciò anche in contesti aziendali di notevoli dimensioni in base ad una recente sentenza (Cass., n. 19268/ 2022).

Occorre, peraltro, una prova rigorosa della para-familiarità con riguardo ad un’azienda caratterizzata da un’organizzazione complessa e articolata.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia (e non quello di abuso dei mezzi di correzione) ha trovato applicazione anche con riferimento all’uso sistematico della violenza da parte di insegnanti nei confronti degli alunni, ossia quando la violenza diviene ordinario trattamento del minore.

Alla luce di tutto quanto rilevato, appare del tutto scorretta la collocazione di tale reato nell’ambito di quelli contro la famiglia, in quanto si pone in essere una condotta altamente vessatoria nei confronti della persona, che appare la vera vittima.

Avv. Stefania Crespi

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