Violenza di genere, pensiero e linguaggio - DONNEXSTRADA
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Violenza di genere, pensiero e linguaggio

David di Donatello, 2018. Paola Cortellesi si esibisce in un famoso monologo che, con  amara ironia, sottolinea come discriminazione e violenza di genere siano pervasive nella  nostra società e cultura, a partire dal linguaggio che quotidianamente utilizziamo. L’attrice  si sofferma su quanto il significato di molte parole o modi di dire cambi in base al genere,  risultando neutro nella forma maschile ma offensivo in quella femminile (un esempio citato:  un uomo di mondo – una donna di mondo).

Il video, disponibile sul canale YouTube della Rai, è un utile spunto di riflessione all’interno  della nostra formazione per i Punti Viola, esercizi commerciali che aderiscono al progetto  per rendere le città più sicure rispetto al tema della violenza di genere.

Perché partire dal linguaggio per parlare di violenza? 

La questione del legame che intercorre tra parole, pensiero e rapporto che abbiamo con il  mondo è stata ampiamente dibattuta in ambito filosofico e linguistico. Nel secolo scorso  anche psicologia e neuroscienze si sono interrogate sul ruolo che il linguaggio ricopre  all’interno dei meccanismi di pensiero e costruzione della realtà, cercando di comprendere  la natura del rapporto che caratterizza processi linguistici e cognitivi.

Nel corso dello sviluppo i primi suoni emergono in maniera spontanea ma l’acquisizione  vera e propria del linguaggio avviene all’interno di un contesto, mostrando fin da subito la  sua finalità sociale. Le neuroscienze hanno contribuito alla comprensione del ruolo che  l’intersoggettività ricopre per l’esistenza umana, dimostrando che le relazioni concorrono a  modellare e ottimizzare le nostre capacità cognitive. Il senso di appartenenza ad una  comunità nella quale identificarsi ha un notevole vantaggio evolutivo, perché far parte di un  gruppo composto da individui simili, i cui comportamenti sono condivisi e quindi prevedibili,  rende più semplice la comprensione del contesto (Gallese, 2003). Fin dai primi giorni di vita  si impara a interagire con l’ambiente e si apprende che gli scambi non sono casuali ma  seguono regole ben precise, come il susseguirsi di turni (di parola o di azione). La  comunicazione da gestuale e autoriferita diventa verbale e condivisa, e il linguaggio nel  corso dei mesi si trasforma gradualmente grazie al contributo dei meccanismi di  osservazione e imitazione, che hanno un ruolo fondamentale nel suo apprendimento (per  un approfondimento sul funzionamento delle strutture cerebrali deputate all’osservazione  del comportamento altrui e all’articolazione dei movimenti della bocca si veda Gentilucci et  al., 2004).

Cultura, linguaggio ed emozioni 

Nel corso dello sviluppo ben presto emerge una particolare tipologia di pensiero, definita  pensiero narrativo (Bruner, 2006), caratterizzata dalla tendenza a produrre racconti che  aiutino a comprendere e interpretare la realtà. Il racconto sarebbe la forma privilegiata di  comunicazione e trasmissione culturale del sapere: consente di organizzare l’esperienza  rendendola condivisibile, trasmettendo ad altri le conoscenze apprese. Praticamente tutte

le culture producono storie per tramandare moniti, tradizioni e consuetudini: basti pensare  alla presenza di miti, proverbi, fiabe e romanzi. Ogni storia rifletterà non solo la sensibilità  del periodo storico nel quale è stata prodotta ma anche le specificità del luogo di origine,  entrambe ben visibili nelle scelte linguistiche effettuate.

Chiunque si occupi di traduzione o abbia una certa familiarità con dialetti, lingue e culture  diverse da quella di origine avrà infatti notato che alcuni termini risultano pressocché  intraducibili, se non utilizzando giri di parole. Ad esempio risulta particolarmente difficile  rendere il lessico emotivo, profondamente diverso da cultura a cultura per quanto riguarda

sia la sua ampiezza che la sua specificità. Alcune sfumature emotive sono caratteristiche di  determinati gruppi etnici e tipologie particolari di emozioni sembrano esistere solo in  specifiche zone del mondo.

È il caso della parola bingung, che a Giava è usata per descrivere un misto di sensazioni  che spaziano dalla sorpresa, alla confusione, al turbamento e allo spaesamento; o della più  studiata amae giapponese, utilizzata come sinonimo di dipendenza emotiva e desiderio di  essere amati ma che comprende molteplici sfumature. Il termine infatti descrive il legame di  dipendenza madre-bambino nelle prime fasi della vita, ma è utilizzato anche per riferirsi al  comportamento regressivo, socialmente accettato e finalizzato a soddisfare il desiderio di  sentirsi protetti, amati e ottenere vicinanza all’interno di una relazione in età adulta, o ancora  per descrivere la sensazione di frustrazione che si sperimenta finché questo specifico  bisogno non viene appagato. Può dunque risultare molto complesso comprendere appieno  la portata di determinate esperienze se non si posseggono vocaboli adeguati a poter  raccontare, e quindi condividere, ciò che si è vissuto.

Poiché la narrazione, forma privilegiata di comunicazione e di trasmissione socio-culturale dei vissuti, ricopre un ruolo fondamentale nella strutturazione del pensiero e nell’interpretazione degli eventi, viene da chiedersi se e in che modo il linguaggio utilizzato  per parlare di violenza di genere contribuisca alla nostra percezione di questo fenomeno.

Anche le parole sono violente 

“Ogni linguaggio perfeziona (ossia porta a compimento) un pensiero: non vi è prima un pensiero e poi un  linguaggio che lo esprime, bensì pensiero e linguaggio si articolano in modo reciproco. Esiste quindi una  relazione intrinseca tra realtà pensabile e realtà comunicabile” (Bruner, 2006, p.172).  

Abbiamo visto come il linguaggio rivesta un ruolo fondamentale nel processo di attribuzione  di senso agli eventi, contribuendo a strutturare o distorcere la realtà. Un interessante studio  del 2012 (Easteal et al. 2012) analizza l’impatto del linguaggio sulla percezione della gravità  dei reati a sfondo sessuale, sia nel più ampio contesto sociale che in quello giuridico. Le  autrici osservano come nell’immaginario collettivo la parola abuso richiami l’idea di un atto  improvviso, brutale e attuato da uno sconosciuto, sebbene la maggior parte degli episodi di  violenza (circa i ¾) avvenga in ambito domestico e/o da parte di uomini conosciuti dalla  vittima. La nostra percezione del fenomeno non è allineata con quanto avviene realmente:  siamo influenzati da quello che è il modo prevalente con cui si parla di violenza di genere,  ancora permeato di stereotipi e false credenze. Vagnoli (2021) riflette ampiamente sul tema  analizzando alcuni titoli di giornale e porta alla luce quanto un certo tipo di narrazione sia  responsabile nel creare, rinforzare o indirizzare l’opinione pubblica, portando a sottostimare  la reale portata e gravità del problema o minimizzando le sue conseguenze. E, soprattutto,  abitua i lettori a prendere in considerazione un unico punto di vista: quello del femminicida,  lasciando poco o nessuno spazio invece al vissuto delle vittime.

Raramente infatti si considera il punto di vista della donna vittima di un qualsiasi episodio di  violenza; molto più spesso ci si imbatte in narrazioni che indugiano sul punto di vista  dell’autore del reato, provando a “giustificarlo” e romanticizzando la vicenda, che risulta così  anche normalizzata. Narrare un episodio di cronaca soffermandosi da un lato sulle presunte  mancanze o errori della vittima e dall’altro sottolineando quanto il suo assassino/abuser ne  fosse “innamorato” fornisce una chiave di lettura ben precisa rispetto al fenomeno: la colpa  è della donna che “se l’è cercata”, mentre l’uomo era solo troppo legato, troppo innamorato,  troppo geloso per poter accettare un rifiuto o la fine di una relazione. L’utilizzo di un

linguaggio colpevolizzante e stigmatizzante nei confronti della vittima, che si sofferma sulle caratteristiche che avrebbero provocato la violenza, come l’atteggiamento, il modo di vestire o l’appartenenza ad un certo gruppo sociale, genera e rafforza il cosiddetto victim blaming,  la tendenza a deresponsabilizzare chi ha commesso la violenza ai danni di chi invece l’ha

subita; si assiste al paradossale fenomeno per cui ad essere messa alla gogna è la persona  che dovrebbe essere tutelata e protetta.

Conclusioni 

Ogni volta in cui si parla di violenza di genere le parole utilizzate contribuiscono a plasmare  il nostro pensiero e atteggiamento rispetto al tema, per cui stereotipi e pregiudizi possono  trovare conferma ed essere così rafforzati, diventando sempre più difficili da sradicare. I processi di cambiamento sono estremamente lunghi e complessi, in particolar modo quando  non investono solo il singolo individuo ma la collettività nella sua interezza. Processi  relazionali, cognitivi e percettivi sono interconnessi e solo agendo simultaneamente su tutte  le componenti sarà possibile assistere ad un cambio di prospettiva e di atteggiamento. Una  revisione del linguaggio utilizzato risulta necessaria proprio perché è un elemento in  continua evoluzione, quello che più velocemente si modifica e adatta per consentire  all’uomo di poter descrivere e condividere le proprie esperienze.

Lavorando con le parole (che non sono “solo” parole), promuovendo l’utilizzo di un  linguaggio che permetta a tutti di accedere al proprio mondo emotivo e impegnandoci ad  accogliere e ascoltare in modo l’altro senza giudicarlo o stigmatizzarlo sarà possibile  provare a modificare la realtà, rendendo il mondo un posto in cui la violenza è riconosciuta  e non più nascosta o minimizzata.

Dott. ssa Christiana Nuzzo, psicologa psicoterapeuta

Bibliografia e sitografia: 

Anolli, L., Legrenzi, P. (2008) “Psicologia generale”, Il Mulino

Bruner, J. (2005) “Il linguaggio del bambino. Come il bambino impara ad usare il linguaggio”,  Armando Editore

Bruner, J. (2006) “La fabbrica delle storie”, Editori Laterza Easteal, P., Bartels, L., Bradford,  S. (2012) “Language, gender and “reality”: violence against women”, International Journal  of Law, Crime and Justice 40, 324-337

Gallese, V. (2003) “Being like me: self-other identity, mirror neurons and empathy”, in  Perspectives on imitation: from cognitive neuroscience to social science, S. Hurley and N.  Chater (Eds), Boston, MA, MIT Press

Gentilucci, M., Stefanini, S., Roy, A.C., Santunione, P. (2004) “Action observation and  speech production: study on children and adults” Neuropsychologia, 42, 1554-1567 Vagnoli, C. (2021) “Maledetta sfortuna. Vedere, riconoscere e rifiutare la violenza di genere”,  Fabbri Editori

Dizionario Enciclopedico Interregionale di Psicoanalisi dell’IPA, “Amae”  https://online.flippingbook.com/view/738131/

Monologo di Paola Cortellesi (2018) https://www.youtube.com/watch?v=4WjhLSkXqTk

 

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