Il parto in anonimato. Quando gli strumenti legislativi incontrano lo stigma. - DONNEXSTRADA
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Il parto in anonimato. Quando gli strumenti legislativi incontrano lo stigma.

Premessa. Il caso di Aprilia.

Accade che un venerdì sera, precisamente il 26 gennaio scorso, una donna abbia lasciato il proprio bambino di circa sei mesi presso il pronto soccorso dell’ospedale di Aprilia, in provincia di Latina.

Non sappiamo nulla di questa donna né dei motivi che l’hanno portata a questa decisione: sappiamo solo che, dopo essersi rivolta al triage, la donna avrebbe lasciato il piccolo, in ottime condizioni di salute, sereno, e ben curato, nella carrozzina, presso la sala d’aspetto del Pronto Soccorso, prima di allontanarsi dal nosocomio.

Questa la notizia, sic et simpliciter.

Nonostante ciò, le testate giornalistiche, primo tra tutte il Tg1, si sono rincorse, additando la donna come la “madre che abbandona il figlio all’ospedale” (attenzione, anche le parole hanno il loro peso), finanche trasmettendo il video delle telecamere di sicurezza che mostra chiaramente la donna.

Le immagini, peraltro registrate per altre finalità, non aggiungono nulla di nuovo alla notizia e per questo non avrebbero dovuto essere trasmesse, in quanto lesive della dignità della donna, in un momento di particolare fragilità, oltre che della privacy della madre e del bambino (di cui è anche stato divulgato il nome).

Eppure, la pubblicazione delle immagini – che sono ancora online, sic! – non ha avuto altro esito, in una sorta di quella che potrebbe essere definita una caccia alle streghe, che scatenare, sui social, nel dibattito pubblico e politico, tutto il livore della “pancia” del Paese contro una donna su cui, come detto, nulla sappiamo e che, anzi, al momento del parto, se correttamente informata, ben avrebbe potuto lasciare il neonato in ospedale, in totale anonimato, come previsto dalla legge.

Cosa dice la legge. Il diritto della donna a partorire in anonimato.

L’ordinamento giuridico italiano garantisce piena assistenza alle partorienti, dando loro la possibilità di lasciare il neonato in ospedale nel più totale anonimato e con la certezza che questo sarà al sicuro finché troverà una famiglia. Trattasi del c.d. parto in anonimato, ovverosia del diritto della partoriente di non essere nominata nella dichiarazione di nascita.

Il parto in anonimato è così regolato:

  1. Innanzitutto, la facoltà della partoriente di rimanere anonima viene menzionata espressamente all’art. 30 decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000, che regola la formazione dell’atto di nascita, salvaguardando la volontà della donna di non essere nominata.
  2. Il successivo decreto ministeriale n. 349 del 2001 ha poi previsto l’inserimento del codice 999 per “donna che non vuole essere nominata” al posto del nome e cognome della partoriente.
  • Il decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice Privacy), regola e limita l’accesso ai documenti sanitari, che permettono l’identificazione della gestante. Nello specifico, l’art. 93, comma 2 del citato decreto legislativo subordina, nel caso di parto in anonimato, l’accesso alla cartella clinica o al certificato di assistenza al parto, nel caso in cui contengano dati identificativi della madre ossia dati idonei ad identificare la donna che non desidera essere nominata, al decorso di un termine prestabilito, definito nel lasso di tempo di cento anni dalla formazione dei documenti in questione (tale diniego di accesso ai documenti sanitari non riguarda però gli atti contenenti dati non identificativi, relativi, ad esempio, a possibili malattie genetiche).
  • La legge del 4 maggio 1983, n. 184, in materia di diritto del minore ad una famiglia, enuncia all’art. 28 il diritto della madre a rimanere anonima, disciplinando le modalità e i limiti dell’accesso da parte dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini.

La ratio sottesa al diritto al parto in anonimato e, in generale, a tutto il sistema normativo appena illustrato, è la tutela della donna e del neonato: così, in ospedale, al momento del parto, viene garantita la massima riservatezza, senza giudizi colpevolizzanti, ma con interventi adeguati ed efficaci, per assicurare – anche dopo la dimissione – che il parto resti in anonimato.

Ciò, come anche affermato dalla Corte Costituzionale che nelle sentenze n. 425 del 16 novembre 2005 e n. 278 del 18 novembre 2013, precisa lo scopo delle norme illustrate, volte “…a tutelare la gestante che – in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi….”; “…il fondamento costituzionale del diritto della madre all’anonimato riposa, infatti, sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili…”.

Quando la Legge incontra lo stigma. 

Eppure, negli ultimi anni, sono sempre meno le donne che partoriscono in anonimato: si è passati dai 642 neonati del 2007 ai 173 del 2021.

Occorre quindi interrogarsi sul perché tale strumento non venga utilizzato: se da un lato l’impianto normativo sia ben radicato e funzionante, dall’altro sembrerebbe proprio esserci un problema di mancata conoscenza e informazione su tale diritto, cui si aggiunge lo stigma del giudizio sociale.

Per il parto anonimo, la donna deve comunque entrare in Ospedale, ove rischia di essere riconosciuta e, anziché non colpevolizzata e supportata, accerchiata e additata.  E infatti così sembra.

Il biasimo che si è scatenato contro la donna di Aprilia, colpevole di aver abbandonato il figlio, a seguito della diffusione delle immagini dell’ospedale è ancor più controproducente nel diffondere la conoscenza di strumenti alternativi quali il parto in anonimato, ma contribuirà soltanto a diffondere la sensazione di deplorazione e condanna, aumentando il rischio che, per non essere identificate, sempre più donne, mosse dalla paura del giudizio, preferiscano lasciare i neonati in strada.

In buona sostanza, il caso di Aprilia lascia la sensazione che si voglia propugnare, anche mediaticamente, un unico ideale di madre e maternità, come anche supportato dai recenti interventi legislativi e commenti degli attuali ministri al Governo.

Se una donna non è madre, è donna a metà. L’obiettivo della donna deve essere la maternità. Se una donna non vuole abortire, deve riuscire nell’impresa di trovare un medico le permetta di farlo.

Se una donna vuole interrompere la gravidanza, le viene prima fatto sentire il battito del feto. Se una donna abortisce, è egoista e corre il rischio di trovare in cimitero, una croce, con il suo nome. Nessuno le spiegherà la possibilità del parto in anonimato. Se lo farà, corre il rischio del pettegolezzo del Paese. Se lascerà, da ultimo, nella disperazione, il figlio in ospedale, vedrà la sua faccia in Tv.

 

Avvocato Micol Missana

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