SESSISMO, STEREOTIPI E SESSUALIZZAZIONE DEL CORPO FEMMINILE NEI MEDIA - DONNEXSTRADA
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SESSISMO, STEREOTIPI E SESSUALIZZAZIONE DEL CORPO FEMMINILE NEI MEDIA

Vi sarà capitato spesso di sentir parlare di sessismo, ma conoscete l’origine e il significato di questo termine? Sapete cosa significa essere sessisti?  Il termine sessismo fu coniato dalle femministe americane degli anni ’60 per indicare l’atteggiamento discriminatorio di chi giustifica, promuove o difende l’idea dell’inferiorità del sesso femminile rispetto a quello maschile.

In realtà, occorre precisare per correttezza che si considera sessista anche chi svilisce gli uomini in quanto tali, ma dato che storicamente è accaduto praticamente sempre il contrario, questa parola ha assunto nel tempo un’accezione tanto forte da racchiudere tutto il suo significato calato nel contesto della discriminazione femminile.

Ma dove si nasconde il sessismo? Come facciamo a riconoscerlo? Esso permea e caratterizza ogni ambito della nostra vita. Anche se non ce ne accorgiamo è spesso nascosto tra le parole di un libro, sui titoli dei giornali, nelle frasi di una canzone, in un’immagine o uno slogan pubblicitario.

Quando, ad esempio, diciamo “avvocato” invece di “avvocata” oppure “primario” invece di “primaria” per riferirci ad una professionista donna, ne stiamo inconsapevolmente sminuendo la professionalità. Stiamo inconsapevolmente lasciando passare l’idea che un avvocato uomo valga di più di una donna che svolge la medesima professione.

È qui, attraverso il linguaggio di uso quotidiano, che nascono e si consolidano gli stereotipi.

 

Stereotipi di genere e violenza implicita interiorizzata

Quando si parla di stereotipi, e in particolare di stereotipi di genere, ci si riferisce alla tendenza ad attribuire alle persone specifiche caratteristiche in base al sesso.

Si tratta di attribuzioni condivise e trasmesse socialmente, legate a luoghi comuni su quelli che sono, e ci si aspetta che debbano essere, comportamenti, ruoli, tratti fisici e caratteriali delle persone, che però non corrispondono ad una realtà sempre fissa ed immutabile. Sono stereotipi socialmente predeterminati quelli che vedono l’uomo sempre forte, coraggioso e indipendente, e la donna come quella fragile, volubile, che ha bisogno di essere protetta. È uno stereotipo di genere, ad esempio, quello secondo cui una donna non possa scegliere di voler fare la calciatrice o la meccanica, perché sono considerati lavori tipicamente “da maschio”. Allo stesso modo, sono stereotipi di genere, quelli secondo cui un bambino non deve giocare con le bambole o non deve piangere perché sono cose “da femminuccia”. Attenzione, questo è uno scivolone pericoloso.

Se non impariamo a vedere e riconoscere il sessismo lo legittimiamo, e così facendo non impareremo mai a vedere, riconoscere e denunciare la violenza.

 

La rappresentazione del femminile nella pubblicità

L’obiettivo di uno spot pubblicitario è quello di vendere un prodotto o promuovere un servizio, ma non solo: la pubblicità incarna idee, valori e norme condivise dalla società. Attraverso le immagini di un cartellone pubblicitario si dà voce all’immaginario collettivo, si plasmano e legittimano i comportamenti sociali, e spesso si ostacola il cambiamento.

Avete mai osservato con attenzione i cartelloni pubblicitari che campeggiano lungo le vie delle nostre città? Vi è mai capitato di pensare che alcuni cartelloni pubblicitari fossero o potessero essere offensivi verso le donne in essi rappresentate? L’immagine femminile è sempre stata nel corso degli anni sminuita, denigrata e offesa dalla rappresentazione fattane negli spot e sui cartelli pubblicitari. Nel tempo c’è stata una diversificazione della rappresentazione del femminile, ma mai in un’accezione positiva. Se nel periodo tra gli anni ’30 e gli anni ’70 era diffusa una rappresentazione della donna in veste di “angelo del focolare”, dedita a cucinare, lavare, pulire e vivere al capezzale del marito, come se non avesse altre capacità o non potesse avere altri desideri e aspirazioni personali e/o professionali, ad oggi siamo di fronte ad una rappresentazione iper-sessualizzata del femminile su tv, giornali e cartelli pubblicitari; la donna appare costantemente raffigurata in immagini di nudo o seminudo, che la riducono ad un mero oggetto sessuale a disposizione del desiderio maschile, normalizzando l’idea che del corpo femminile se ne possa disporre a proprio piacimento.

Nei media, la rappresentazione della donna è sempre quella di un soggetto passivo, di colei che viene posta sempre un passo indietro all’uomo. Nella maggioranza dei casi, la rappresentazione della donna è associata a temi di naturale sessuale o alla bellezza puramente estetica. Rarissimi sono i casi in cui troviamo una rappresentazione del femminile associato a temi sociali o culturali di una certa rilevanza. Una rappresentazione come quella veicolata nei cartelli pubblicitari più noti trasmette il messaggio sbagliato e pericoloso che la donna non debba o non possa esistere ed essere riconosciuta, se non costantemente subordinata e accostata al maschio dominante e al suo desiderio, che l’unicità di una donna si riduce unicamente al corpo e alla seduzione, o che solo le donne che rispondono a certi e precisi canoni estetici sono degne di valore, mentre le altre non esistono.

Pensiamo, ad esempio, ai flyer pubblicitari utilizzati dai locali maggiormente frequentati dai giovani – le discoteche – per promuovere serate d’intrattenimento con musica dance. Ebbene, se ci riflettete con attenzione, vi verrà quasi d’istinto, associare a questi volantini pubblicitari l’immagine di una donna raffigurata in una posa “sessualmente disponibile”, alla quale si aggiunge spesso lo slogan “tutti a ‘90” che contribuisce ancor più a rafforzare la connotazione erotico-sessuale del messaggio, oggettivando il corpo femminile, nonostante questo tipo di messaggio implicito non abbia nulla a che vedere con il reale messaggio che questo tipo di volantino pubblicitario dovrebbe trasmettere per promuovere il proprio servizio, ovvero attirare l’attenzione sull’organizzazione di una serata di divertimento musicale per i giovani.

Ma il panorama delle pubblicità sessiste non finisce qui. Nel tentativo di fare un excursus sull’evoluzione delle pubblicità dagli anni ’30 ai giorni nostri, sono davvero tante quelle che catturano l’attenzione per il costante ricorso alla mercificazione del corpo femminile a scopi di marketing. Ad esempio, la pubblicità di una rosticceria, che per promuovere il suo prodotto, ossia polli alla brace, pone in primo piano l’immagine di un prosperoso seno femminile promettendo ai clienti “petto per tutti”. E, chiaramente, il riferimento non è al petto di pollo.

E ancora, la pubblicità di un’ottica che, per promuovere la vendita delle montature per occhiali, promette di “darla gratis, la montatura”. Anche in queto caso, ancora una volta, l’immagine scelta per il volantino, sfrutta il volto di una donna ritratta in una posa sensuale e con sguardo ammiccante, tanto da lasciar intendere che no, non sarebbe la montatura degli occhiali ad essere “data gratis”.

Avete mai fatto caso che, invece, con la rappresentazione del maschile tutto questo non accade? L’uomo viene rappresentato quasi sempre in un’accezione positiva, quasi sempre serioso e impegnato nel lavoro. Quasi mai, viene usata l’immagine di un uomo raffigurato seminudo o in pose allusive, allo scopo di fare leva sul suo potere attrattivo per vendere un prodotto.

L’effetto di questo tipo di campagne pubblicitarie è quello di sminuire e svilire l’immagine femminile, e quello che più preoccupa è che dietro queste pubblicità non c’è un’intenzione denigratoria consapevole, bensì inconscia e interiorizzata, al punto da rendere difficile far rendere conto del loro potere denigratorio a chi le immette sul mercato, ed innescare un necessario cambiamento di rotta.

Le immagini esprimono i valori della “cultura di massa” e costituiscono pertanto un canale privilegiato per la riproduzione del potere, in particolare quello patriarcale. In altre parole, esse contribuiscono a veicolare e mantenere quella violenza simbolica che Pierre Bourdieu ha descritto come una “forma di violenza dolce, invisibile per le sue stesse vittime, che si esercita attraverso le vie simboliche della comunicazione e della conoscenza”.

 

Non sono mai “solo parole”: sessismo e sessualizzazione del femminile nella musica

Se, come abbiamo visto, nell’ambito della pubblicità il sessismo e la svalutazione della donna sono più che mai frequenti, dobbiamo dire, purtroppo, che nell’ambito musicale le cose non sembrano andare per il meglio.

La musica ha un ruolo fondamentale nel rendere orecchiabile e naturalizzare i rapporti di potere e subordinazione che spesso caratterizzano le relazioni affettive tra uomini e donne. Sostanzialmente, anche la musica veicola e normalizza il dominio maschile sulle donne. Soprattutto quando si parla di amore, sentimenti e relazioni, la musica contribuisce a dare forma ai modelli di comportamento maschile e femminile. Così come le immagini non sono mai solo immagini, per citare una famosa canzone della cantautrice Noemi, le parole non “sono solo parole”.

“Sei donna, meravigliosa, sei donna, pericolosa… Regina di cuori tra mille colori, sei tu la più bella e della notte la mia stella…” cantano i Litfiba nel brano “Regina di cuori” del 1997, sottolineando, già in tempi non recenti, quanto la bellezza estetica sia spesso l’unico elemento per cui una donna viene notata e ricordata. Gli uomini vengono descritti nelle canzoni come seduttori forti e sicuri di sé, come nel brano “Su le mani” di Fabri Fibra del 2006 in cui canta “non conservatevi, datela a tutti anche ai cani, se non me la dai te la strappo come Pacciani” nel quale si evidenzia tutta la mascolinità tossica di colui che ottiene sempre quello che vuole, ovvero la conquista e l’uso del corpo femminile, per poi dileguarsi una volta raggiunto l’obiettivo di consumare il rapporto sessuale.

Nei testi delle canzoni si veicola, ma soprattutto si normalizza pericolosamente, e sempre più spesso, l’immagine di un uomo che di fronte al rifiuto di una donna reagisce con efferata violenza, sia essa fisica o psicologica.

Difatti, avvicinandoci a generi musicali come il rap o la trap, che incontrano maggiormente i gusti e le preferenze dei ragazzi e delle ragazze dei giorni nostri, salta subito all’attenzione quanto sia sempre più frequente in questo genere di canzoni l’uso di un linguaggio sempre più forte e violento, contribuendo a rafforzare antichi stereotipi sessisti. Vi è mai capitato di fermarvi ad ascoltare con attenzione le canzoni dei più famosi trapper e rapper italiani come Sfera Ebbasta, Junior Cally, Dark Polo Gang? Paola Zukar, manager dei più famosi trapper italiani, ha dichiarato che la trap è un genere musicale che pone in risalto il vuoto, la brevità e la superficialità del mondo in cui queste canzoni vengono ascoltate. Per fare qualche esempio, nell’ascoltatissima “Hey Tipa” di Sfera Ebbasta, saltano all’occhio frasi come “Hey tr***! Quanto sei por*a dopo una vodka. Vieni in camera con la tua amica por*a…’ste pu****e da backstage sono luride, siete facili, vi finisco subito”. Per chiudere questa carrellata di asterischi, utilizzati appositamente per spegnere e mettere a tacere la tanta, troppa violenza, di cui trasudano i versi di queste canzoni, facciamo un ultimo triste esempio, quello del rapper Junior Cally, salito alla ribalta delle polemiche nel 2018 per essere stato escluso da San Remo per via di alcuni versi della sua canzone “Si chiama Gioia” in cui cantava “Lei si chiama Gioia, beve e poi ingoia. Balla mezza nuda, dopo te la dà. Si chiama Gioia perché fa la tr*** per la gioia di mamma e papà. Questa non sa cosa dice, porca tr*** quanto ca**o chiacchiera? L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa, c’ho rivestito la maschera”.

Se è vero, dunque, che la musica riflette e influenza i modelli sociali, se è vero che i testi delle canzoni predicono cosa sia “normale” aspettarsi dai comportamenti umani, viene da chiedersi come sia possibile che attraverso la musica si possa legittimare la normalizzazione della violenza, dell’aggressività, della misoginia e del disprezzo verso le donne.

Canzoni come queste, ancora una volta, offendono la dignità delle donne riducendole a oggetti sessuali; corpi messi lì, gettati nella mischia, per soddisfare desideri e perversioni degli uomini, normalizzando l’idea che sia giusto, e addirittura virile, usare e poi buttare le donne.

In definitiva, la musica, così come tanti altri linguaggi, ha un impatto trascinante nel modellare la cultura, in particolare quella delle giovani generazioni, e proprio perché i giovani tendono all’emulazione dei propri modelli di riferimento, la musica non può promuovere certi valori e ideali, ma dovrebbe essere ripensata e riscritta tornando ad essere arte ed emozione, e tornando a far riflettere. In tal senso sembra importante, in quest’epoca più che mai, insegnare ai ragazzi e alle ragazze, a donne e uomini, a sviluppare un pensiero critico, che permetta loro di imparare a riflettere con consapevolezza sul significato del linguaggio, sia esso televisivo, pubblicitario e/o musicale, affinché possano imparare a riconoscere dove ci sono discriminazione e violenza, e combatterla con fermezza.

 

Dott.ssa Cinzia D’Intino – Psicologa

 

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